Dalla tribù alla civiltà globale: qual è il destino dell’umanità?
Un viaggio nell’evoluzione sociale dell’uomo: dai clan nomadi all’ipotesi di una città-mondo senza confini.
Una traiettoria inscritta nella storia dell’evoluzione
Le società umane, fin dalle origini, mostrano una tendenza strutturale all’ampliamento. Dalla convivenza in clan strettamente familiari si è passati alle tribù, poi ai villaggi, alle città-stato, agli imperi e ad oggi agli Stati-nazione.
A ogni passaggio è aumentata la scala dell’appartenenza, la complessità delle istituzioni, la distanza tra l’individuo e il centro del potere amministrativo. Questo processo, che attraversa millenni, non è lineare né privo di crisi, ma è sufficiente a indicare una direzione storica: l’essere umano si è organizzato in gruppi sempre più grandi, con strutture sempre più sofisticate.
Ciò pone una domanda: se la storia dell’organizzazione sociale è una traiettoria espansiva, è plausibile pensare che lo Stato-nazione — nato da appena due o tre secoli — non sia un punto d’arrivo, ma un passaggio intermedio verso una futura civiltà globale?
Non abbiamo certezze. Ma ci sono indizi coerenti con questa ipotesi.
Gli albori: tribù, clan e comunità primordiali
Nella preistoria, l’uomo viveva in piccolissimi gruppi nomadi, composti da famiglie estese o clan. Si stima che la maggior parte dei gruppi tribali contasse tra le 20 e le 150 persone – un dato confermato anche dal noto “numero di Dunbar” che individua nei 150 di individui il limite cognitivo per mantenere relazioni sociali stabili.
In questi gruppi, l’organizzazione era informale: l’autorità derivava da saggezza, forza o anzianità. Le decisioni erano collettive o comunque prossime all’esperienza diretta del gruppo.
Queste comunità erano altamente interdipendenti e basate sulla fiducia. Seppur limitate, la coesione era possibile. L’estensione di queste forme a numeri maggiori avrebbe richiesto, come vedremo, una rivoluzione.
L’agricoltura e l’insediamento: l’uomo diventa stanziale
Circa 10.000 anni fa, la scoperta dell'agricoltura ha trasformato radicalmente l’organizzazione sociale. L’uomo iniziò a stabilirsi, nacquero i villaggi, la proprietà, la divisione del lavoro, l’accumulazione di risorse, la disuguaglianza.
Questo portò alla necessità di regole più stabili, autorità riconosciute, gerarchie, forme di organizzazione sociale, riti. Con la scrittura (in Mesopotamia, attorno al 3200 a.C.), prima come strumento contabile, poi come veicolo di leggi e cultura, nasce anche l’amministrazione centralizzata e con essa il concetto di “governo”. La coesione comincia a dipendere non solo dalla prossimità, ma dalla condivisione di codici simbolici.
Questo passaggio non fu lineare. Gli insediamenti stabili comportarono tensioni, guerre per le risorse, e soprattutto una crescente differenziazione interna. Ma allo stesso tempo posero le basi per l’idea che una comunità potesse comprendere molti e non solo pochi.
Città-stato e imperi: la gestione della complessità
Tra il 3000 e il 500 a.C., emersero le prime città-stato (Uruk, Atene, Sparta, Cartagine) e, parallelamente, i grandi imperi (Egizio, Babilonese, Persiano, Romano, Cinese).
L’evoluzione delle forme sociali umane è caratterizzata da una progressiva espansione dei confini identitari e politici. Dalle tribù si passa ai clan, poi ai villaggi e alle città. Nascono le città-stato — come Atene o Uruk — che anticipano le prime forme istituzionali complesse. L’Impero Romano, l’Impero Cinese e altri esempi classici rappresentano forme embrionali di “macro-società”, dove popolazioni diverse convivono sotto un’unica organizzazione.
Queste entità avevano un punto in comune: erano sistemi multilivello, in cui popolazioni diverse venivano unite sotto una burocrazia, una lingua ufficiale, un culto comune o un sovrano.
L’Impero Romano, ad esempio, governava decine di milioni di persone con etnie, religioni e culture diverse. Aveva una moneta unica, un diritto uniforme, infrastrutture comuni. In un certo senso, fu il primo esperimento su larga scala di “unità nella diversità”. Ma la coesione si basava più sulla forza e sull’organizzazione militare che su una vera identità collettiva condivisa.
Quando gli imperi crollavano, si tornava spesso a frammentazioni locali.
Stato moderno e federazioni: l’età delle nazioni
Dal ‘600 in poi, con la nascita dello stato moderno, si afferma il principio di sovranità territoriale, sancito nel 1648 con la Pace di Vestfalia. Gli stati non erano più solo domini di re, ma entità giuridiche dotate di confini, leggi e popoli “nazionali”.
L’Illuminismo e la Rivoluzione francese gettano le basi dell’idea di Stato-nazione moderno, costruito attorno a una lingua, un’identità culturale e una sovranità territoriale.
Nell’800 e ‘900 nasce il nazionalismo moderno, che tenta di fondere etnia, lingua, cultura e stato. Questa visione ha dominato la scena mondiale fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Questo modello che si afferma tra Ottocento e Novecento, domina ancora oggi mostra segnali di fatica.
Come ha sottolineato Benedict Anderson in “Comunità immaginate”, l’identità nazionale è un costrutto narrativo, potente ma instabile. È proprio la sua natura immaginata a renderla flessibile: ciò che è stato costruito può essere superato.
Il secondo Novecento però segna l’inizio di una nuova fase: le federazioni e gli organismi sovranazionali. L’ONU, l’Unione Europea, la stessa NATO: sono tentativi di coordinamento tra stati indipendenti. Il diritto internazionale cerca di limitare la sovranità assoluta, introducendo norme globali sui diritti umani, sull’ambiente, sui conflitti.
Superamento dello Stato-nazione: evoluzione o necessità?
Alcuni sociologi e filosofi contemporanei indicano che lo Stato-nazione, lungi dall’essere una forma eterna, potrebbe essere un passaggio intermedio. Secondo Michel Foucault, lo Stato moderno si fonda su una gestione biopolitica della popolazione: controllo, sorveglianza, normalizzazione. Ma l’eccesso di gestione tende a rendere visibile l’artificio, e a lungo termine potrebbe innescare una rottura.
D’altra parte, Jared Diamond, nel suo “Armi, acciaio e malattie”, descrive l’espansione delle società come effetto dell’evoluzione tecnologica e agricola: più produzione significa più popolazione, più popolazione richiede più organizzazione. Laddove l’organizzazione è inefficiente o eccessivamente frammentata, prevale la fusione, l’aggregazione.
In un’epoca globale, dove il commercio, l’informazione, i cambiamenti climatici e le pandemie superano costantemente i confini nazionali, l’idea di uno Stato-mondo non sembra più tanto fantascientifica quanto storicamente coerente. La tecnologia e l’interconnessione accelerano questo processo.
Una direzione possibile, non inevitabile
Non è corretto affermare con certezza che l’umanità si dirigerà verso uno Stato globale, né che tale passaggio sarà indolore o lineare. Le forze centrifughe — identitarie, religiose, economiche — sono ancora forti. Ma è lecito osservare che la storia dell’umanità tende ad ampliare gli orizzonti di cooperazione e inclusione. Come afferma Norbert Elias ne “Il processo di civilizzazione”, il cammino umano è segnato da una crescente regolazione dei comportamenti, una rete di interdipendenze che spinge verso organizzazioni sempre più complesse.
Un mondo unito non sarà il frutto di un atto di volontà, ma il risultato di una lunga trasformazione. Una mutazione silenziosa, come la chiamerebbe Han, che altera profondamente lo status quo. E se la storia insegna qualcosa, è che ogni forma sociale tende a essere superata. Anche lo Stato-nazione, come prima la tribù.
Nota deontologica finale
Questo articolo ha cercato di argomentare su basi storiche, geopolitiche e sociologiche. Alcuni scenari futuri (come l’esistenza di un governo mondiale o la fine degli stati-nazione) restano speculativi, e non possono essere trattati come fatti certi. Non c’è oggi un consenso nella comunità scientifica o accademica su quale direzione prenderà la società globale.
L’approccio seguito è quindi ipotetico, critico e aperto.
Bibliografia essenziale:
Michel Foucault, Sorvegliare e punire (1975); La volontà di sapere (1976)
Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie (1997)
Byung-Chul Han, Nello sciame (2013); La società della stanchezza (2010)
Benedict Anderson, Comunità immaginate (1983)
Norbert Elias, Il processo di civilizzazione (1939)
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