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Il cubo

Uscii a fare colazione perché in casa non c’era granché.
Non avevo fatto la spesa per l’ennesima volta
e mi trovavo a dover fare i conti con la mia procrastinazione.

Oggi andrò, mi ripetevo.

Mentre bevevo il mio caffè
e guardavo all’incrocio che dà sul dehor,
mi accorsi di un oggetto tanto insolito quanto semplice.

Che però stonava
tra la pietra e l’asfalto grigio.

Un cubo di legno,
perfettamente intagliato,
in mezzo alla strada,
stava lì.

Anche io stavo lì.
E non so chi dei due fissasse per primo.

La sua forma era netta, quasi affilata.
Perfetta.

Ciò che mi colpiva di quell’oggetto…
non saprei descriverlo a primo impatto,
eppure la sua natura me ne rivelò il valore.

Prima di tornare a casa
e cominciare con la solita routine
lo presi e lo portai con me.

Forse come monito:
che anche in una giornata che sembra uguale
ci può sempre essere
un qualcosa
che esce dall’ordinario
e dal grigio dell’asfalto.

Un dettaglio così piccolo,
un oggetto apparentemente così insignificante...
chissà quanta gente vi è passata a fianco
senza neanche concedergli un pensiero.

Ma del resto, perché avrebbero dovuto?
Non è importante.
Altro lo è.
O forse, così ci si dice per non uscire dalle proprie convinzioni.

Appena lo raccolsi,
riconobbi subito il legno di cui era fatto.
Era liscio e morbido, senza increspature,
e al naso giungeva un pungente odore di resina.

Una volta era chiaramente un pino.
Chissà da quale bosco alpino sei stato sradicato,
lavorato,
e poi abbandonato.

Chissà quante cose hai visto
e per cosa hanno avuto così fretta di abbatterti,
per poi finire lì,
abbandonato sul ciglio della strada
davanti a un bar.

Arrivato a casa,
cominciai a sondarne la superficie.
A osservarne i dettagli.

Mi ammaliava la sua perfezione,
sembrava quasi si fosse materializzato lì dal nulla.

Non aveva segni di usura,
e la sua lavorazione sembrava non essere mai avvenuta.

Non so come spiegarlo,
ma era un artificio estremamente naturale.

Ne fui così attratto
che quasi mi scordai di fare la spesa, di nuovo.

Ogni distrazione pare essere buona per distogliere dall’ordinario.
Ma stavolta era diverso.

Ne ero come attratto.

Realizzarlo mi mise sconforto,
dunque lo coprii e andai al supermercato,
riponendolo sulla libreria.

Inevitabilmente,
i giorni passarono
e, forse per timore,
smisi di avvicinarmici.

C’era qualcosa in quel cubo
che parlava a una parte di me,
quella più recondita,
suscitando inquietudine.

Solo tempo dopo
mi resi conto che non sbagliavo.

Un giorno,
mentre sceglievo quale libro portarmi appresso in escursione,
non resistetti alla tentazione
di sbirciare sotto il telo che copriva il cubo.

Era come se mi parlasse.
Sentivo la sua mancanza.

Era mattina presto quando lo presi in mano
e mi accorsi che vi erano spuntate delle incisioni,
non lontane dai simboli runici.

La luce sembrava riflettere ciò che prima non era visibile,
mostrando un'altra faccia del cubo.

Da lì
ne divenni ossessionato.

Cominciai a guardarlo e studiarlo ogni momento della giornata,
aspettando che mi rivelasse qualcosa di nuovo
e, puntualmente,
accadeva.

Non lo dico con entusiasmo,
ma con terrore.

Cominciava a comporsi,
come un testo in divenire.

Come se il cubo
stesse scrivendo sé stesso.
O forse… scrivendo me.

Ogni rivelazione suscitava un senso di estraneità,
ogni rilievo che si aggiungeva
mi faceva sentire sempre più… diverso.

Ogni volta che lo osservavo
cambiava qualcosa
dentro di me
e dentro di lui.

L’ossessione per il cubo
cominciò a tormentarmi anche di notte.

Non vi era sogno in cui non avessi visioni di numeri,
forme geometriche irreplicabili
e lettere arcane.

Era come se fossimo divenuti un tutt’uno,
o per lo meno,
che il cubo si fosse insinuato in me
come un virus.

Non uscivo di casa da giorni.
Non mi lavavo.
Le notti erano insonni.

L’unica cosa di cui mi importava
era il cubo.

Dovevo capirne il linguaggio,
dovevo capire cosa stesse comunicando.

La sua perfezione
mi tormentava più delle notti insonni,
dei numeri,
delle forme
che agitavano la realtà.

“Nulla di ciò che è perfetto appartiene a questo mondo”,
pensavo in preda alla disperazione.

Una notte,
o forse era mattino — il tempo aveva perso ogni significato —
il cubo iniziò a pulsare.

Non con luce.
Né con suoni.

Ma con una vibrazione silenziosa
che pareva provenire da dentro di me.

Lo poggiai sul pavimento,
incapace di reggerlo
per il peso ormai insopportabile.

Le incisioni si mossero.
Sì, si mossero.

Non era più questione di luce o riflessi:
i segni si distendevano,
si contorcevano,
si allungavano sulla superficie,
come nervature vive sotto pelle.

Il legno, prima caldo e naturale,
sembrava ora un materiale che non avevo mai toccato:
né vivo, né morto,
qualcosa a metà tra idea e materia.

Allora compresi, con rammarico…
non ero io a leggere il cubo.
Era il cubo
che stava leggendo me.

Ogni pensiero che avevo avuto,
ogni sogno dimenticato,
ogni errore nascosto sotto strati di razionalità,
ogni menzogna
e peccato:

tutto veniva inciso lì,
in una lingua che non conoscevo
ma che percepivo.

Il cubo non era stato creato.
Era emerso.

Doveva soltanto trovare uno sguardo per rivelarsi,
per cominciare a scrivere.

E io
gli avevo dato il mio.

Mi avvicinai per l’ultima volta,
in ginocchio,
come in preghiera,
e allora lo vidi:

su una faccia che non avevo mai notato prima,
c’era un volto.

Il mio volto.

Non una scultura,
non un’imitazione:
era il mio viso,
perfettamente inciso,
immobile
e in attesa.

E sotto,
in una lingua che non avevo mai imparato,
ma che ora capivo senza mediazione,
vi era scritto:

“Questo non è un oggetto.
È un testimone.
Ogni mente che sonda troppo a lungo,
genera ciò che sarà inciso.”

Mi accorsi troppo tardi
che ogni pensiero stava diventando parte della struttura,
che l’ultima cosa ad essere scritta
sarebbe stata
la mia inevitabile rinuncia.

Il cubo
non cercava di essere capito.
Cercava un ospite.
E ora
l’aveva trovato.

Non cercava un padrone.
Cercava un tramite.

E io,
avevo toccato troppo.

è tutto vero :)